domenica 22 settembre 2013

#03 Ogni cosa era perfetta

#03

Ogni cosa era perfetta

Erano le 5. Così recitavano quei numeri un po' sfocati proiettati dalla sveglia olografica sul soffitto. M. si svegliò stordito e frastornato. Si massaggiò le tempie, si dette un paio di colpetti sulle guance, distese i muscoli del collo e delle spalle: nulla da fare, il torpore permaneva. Non riusciva a spiegarsene il perché – non veniva da alcuna giornata impegnativa, né si era sottoposto a sforzi intensi, per di più non consumava alcolici da almeno due settimane, – ma non ne fece un problema e si alzò comunque. La sua giornata sarebbe iniziata solamente 3 ore più tardi, sennonché il sonno era sparito; inutile rigirarsi fra le coperte. Come da abitudine, andò a rifugiarsi in gabinetto per la consueta toletta. Quella mattina ne aveva particolarmente bisogno, ne diede conferma anche l'immagine del suo volto – a dir poco cereo e scarno – riflessa nello specchio sopra il lavabo; non se ne curò molto. Dette allora uno sguardo fuori dalla finestra del bagno, antistante una semplice strada di periferia – o almeno, di solito era quello ciò che aveva da offrire a chi la fissasse. Stavolta, però, M. rimase sorpreso da ciò che osservò: un imprecisato numero – una cinquantina forse, difficile contarli – di corpulenti rettili dalle fattezze vagamente antropomorfe inseguiva, oppure strattonava, o ancora aggrediva, ciascuno una o più bambole. Esse erano di bassa statura, fatte probabilmente di ceramica, e con passi stentati cercavano invano di salvarsi. La scena era raccapricciante e disturbante, al punto che M. chiuse in fretta la serranda per interromperne la visione; era disgustato, eppure profonda rassegnazione inconsciamente lo pervase. Ancora intorpidito, si recò in cucina. Era molto presto, ciononostante un certo languore s'insinuava comunque nel suo stomaco; iniziò quindi a prepararsi una leggera colazione – magari lo avrebbe pure aiutato a ristabilirsi. Mentre mordeva un tramezzino al prosciutto corredato da un caffè, uscì sul balcone della stanza per saggiare l'umida e fredda brezza mattutina di metà settembre. Di nuovo, un insolito scenario sostituì il prato all'inglese che in genere era prospiciente la terrazza: apparve un'ariosa aula semicircolare in cui alcuni scranni centrali, posti l'uno di fronte all'altro, erano sovrastati da lunghi banchi in legno che salivano seguendo una fitta scalinata. Seduti su quelle imponenti sedie, agitavano animatamente le braccia ad occhi chiusi sconosciuti uomini – in giacca e cravatta – sprovvisti di bocca. Tuttavia, guardando meglio era chiaro dove si trovassero le loro bocche: erano le enormi paia di labbra, fornite di denti e lingua, che svolazzavano senza meta fino al tetto. Urlavano a gran voce parole irriconoscibili – la distanza a cui M. si trovava non giovava; tutto ciò che riusciva a captare era un roboante “BLAH! BLAH! BLAH! BLAH! BLAH! BLAH!” infinito. Sui seggi tutt'intorno, diversi primati di razza ignota e modeste dimensioni assistevano allo scontro verbale, rispondendo a loro volta con forti e sconclusionati schiamazzi che si sovrapponevano al trambusto già presente in quel luogo. M. fu molto infastidito ed innervosito da quella visione, ma fece capolino un senso d'accettazione ancora più intenso, un relitto amplificato del precedente “quadro”. Sempre più confuso, intimamente frustrato e scontento – non ne conosceva il motivo esatto, – si recò in soggiorno per ammirare dalla grande portafinestra il caro connubio di colline e cielo che lì lo attendeva ogni giorno, per abbracciarlo e confortarlo. Lo stupore fu ancora maggiore al cambio di veduta che persino in quel frangente avvenne: cineree nuvole sovrastavano il suolo, una barriera perforata solo da asteroidi incandescenti, i quali precipitavano con boati assordanti su prati e monti completamente carbonizzati o ancora ricoperti di dense colate laviche; esseri umani di qualunque età o sesso erano ricoperti dalle fiamme e, arsi vivi. lanciavano atroci grida di dolore; in lontananza si scorgevano alti palazzi ed edifici demoliti dalle continue collisioni con i meteoriti, le eco degli impatti giungevano distinte all'orecchio. M. si girò dando le spalle a quel palcoscenico, ma qualcosa era cambiato, poiché questa volta fu un timido sorriso – più un sogghigno, a dir la verità - a scendere lieve sul suo viso. Si compiacque di ciò che aveva trovato là fuori. Si trascinò allora nuovamente verso il suo letto, deciso ad addormentarsi fino a data indefinita. Da quel giorno il mondo non avrebbe più necessitato di alcuna azione da parte sua affinché fosse migliore. Ogni cosa era ora davvero perfetta.


gian

martedì 10 settembre 2013

LA PERSONA PIU' FORTUNATA CHE AVESSE MAI INCONTRATO IN VITA SUA

Quando bazzicavo riviste e blog letterari per saggiare i gusti e le tendenze della novissima poesia, in un tempo in cui ancora credevo che in vita mia avrei potuto scrivere qualche buon verso, mi imbattevo spesso in testi di una giovane poetessa. La giovane poetessa cominciò a pubblicare su blog e riviste minori, poi a scrivere per quelle più importanti ed in vista. Scriveva frammenti lirici molto prosastici, con un lessico dimesso e senza troppe figure retoriche o altri espedienti tecnici cervellotici, piuttosto ricorreva a frasi ad effetto tendenti all’aforisma pubblicitario, sullo stile dei bigliettini dei Baci Perugina. Le sue poesie parlavano d’amore e della dignità della donna.

Una volta partecipò ad un concorso on-line per poeti under 30 e vinse con una lunga poesia prosastica. Nella giuria c’erano anche poeti e poetesse che venivano considerati nomi eminenti della poesia italiana del novecento, si sentiva molto soddisfatta del risultato raggiunto e chiamava la sua migliore amica per dirle che appena avrebbe ricevuto i soldi del premio avrebbe offerto una giornata di shopping. L’amica, dall’altro capo del telefono, rispondeva con risate e gridolini d’entusiasmo, suscitati più dalla giornata di shopping che non dal premio, diceva che nel frattempo si doveva festeggiare andando a ballare da qualche parte, magari rimorchiando un bel ragazzo se andava bene.

La serata andò bene ed entrambe si ubriacavano e rimorchiavano due amici, mettendosi d’accordo su quale coppia avrebbe utilizzato la macchina dei ragazzi e quella delle ragazze per godersi il premio della serata. Il giorno dopo la giovane poetessa si svegliava a mezzogiorno e mezzo, mentre aspettava di riprendersi un po’ per preparasi il pranzo, in preda ai postumi della sbronza e del coito, scriveva una lirica un po’ malinconica sulla fugacità dell’eros in questi solitari tempi desolati di social network e discoteche.

Qualche giorno dopo la giovane poetessa riprendeva a studiare per gli esami di architettura, la sessione di esami era sempre più vicina e lei, come la quasi totalità degli studenti, non si metteva a studiare seriamente finché non si rendeva conto che il tempo mancante agli appelli era giusto quello necessario a preparare l’esame. A volte andava in biblioteca con la sua migliore amica e vi trascorreva l’intera giornata, accontentandosi di un panino al bar di fronte per pranzare.

Nei periodi di maggiore stress compravano un pacchetto di sigarette da venti e lo smezzavano, non essendo fumatrici il pacchetto durava anche un giorno e mezzo. La sera a volte andavano a bere una birra da qualche parte e facevano una passeggiata, più spesso se ne stavano in casa a vedere un film con una birra economica che prendevano all’alimentari, perché così evitavano di fare tardi e perché nei locali la birra costa molto, non ci si possono permettere molte spese quando si ha un affitto da pagare e si rischia di andare fuori corso e gravare ulteriormente sulle finanze (già non floride) di mamma e papà.

Durante i periodi di studio più intenso la giovane poetessa non riusciva a comporre le sue liriche prosastiche, era troppo assorbita da quei libri che, diceva, le inaridivano la vena artistica con la loro asetticità accademica, si sentiva un po’ morta dentro senza il suo sfogo prediletto. Una notte vide un bellissimo film d’amore con la sua compagna di studio e rimase in piedi fino a tardi a scrivere, nonostante la compagna la sollecitasse ad andare a letto altrimenti il giorno dopo le sarebbe mancata la freschezza mentale necessaria allo studio, ma lei era pur sempre un’artista e quando l’arte chiamava doveva rispondere.

Un giorno arrivavano i soldi del premio e le amiche si concedevano un giorno di pausa dallo studio intenso, l’amica della poetessa prendeva lo sua macchina e guidava fino al centro commerciale più vicino. Appena scese dalla macchina l’amica trovava una banconota da cinquanta euro per terra e la mostrava alla giovane poetessa, che la proclamava la persona più fortunata che avesse mai incontrato in vita sua, mentre l’altra ne rideva e diceva che era stato solo un caso.

Tornate a casa con qualche paio di jeans e scarpe nuove acquistati in offerta, le ragazze decidevano di concedersi una doccia e una cena fugace. Mentre l’amica canticchiava sotto l’acqua Il più grande spettacolo dopo il big-bang siamo noi, la giovane poetessa decise di controllare la mail, che non apriva da molto tempo. Notava subito un indirizzo sconosciuto e leggeva con molto interesse.

Quando l’amica usciva dalla doccia la trovava che sorrideva come una stupidina davanti allo schermo del computer, così la giovane poetessa spiegava che qualcuno aveva letto la poesia con cui aveva vinto il concorso e le aveva proposto di pubblicare i suoi versi in un libro, un’antologia di novissimi poeti, che sarebbe stato venduto su Amazon. La collana di cui faceva parte il libro faceva capo a un noto poeta del novecento italiano (che io non ho mai letto). La amica sorrideva pure lei e si fingeva felice, in realtà non capiva il valore della pubblicazione per l’amica, sebbene questa si ostinasse a ripetere che se le cose andavano bene magari era la volta giusta che svoltava.

I giorni passavano ed arrivavano gli esami. Entrambe le amiche li superavano con buoni voti, erano brave ragazze, molto diligenti nello studio ma senza lasciarsi assorbire totalmente dagli impegni accademici. Riuscivano a conciliare molto bene l’università con la vita sociale, per questo gli amici volevano loro molto bene, qualche amico un po’ lavativo le ammirava perfino per le loro capacità, che quei ragazzi e ragazze un po’ lavativi credevano di non poter ritrovare in sé stessi.

Ad un esame la giovane poetessa fu promossa con trenta. Aveva studiato molto ma si sentiva un po’ avvilita, il professore l’aveva fatta parlare poco, accontentandosi di nozioni molto generali, la poetessa pensava di dovere quel voto più al suo gradevolissimo aspetto fisico che non alle sue doti intellettuali e scriveva una poesia sull’irrisolto problema degli uomini che giudicano le donne per il loro aspetto fisico. Si sentì ancora più avvilita quando il suo amico le raccontava che all’esame non era stato molto brillante ma aveva preso trenta come lei, non sapeva spiegarselo e sospettava che il professore gli avesse dato quel voto perché pensava se la bombasse. Intanto la sua amica prendeva ventiquattro e per errore il professore lo trascriveva come ventisette, così la poetessa le diceva che era proprio la persona più fortunata che avesse mai incontrato in vita sua.

Finiti gli esami le amiche decidevano di fare una cena a casa loro, niente di speciale, uno spaghetto ai pomodorini e un po’ di birra, una cosa tranquilla per trascorrere una serata in compagnia, loro preparavano la pasta per tutti e gli invitati portavano qualche bottiglia di birra. Durante la cena c’era un’atmosfera molto lieta, alcuni amici che venivano da più lontano a frequentare l’università in quella città furono molto contenti di ritrovare i compagni di corso, si parlò di esami e di che cosa avessero fatto tutto quel tempo a casa. A casa non è che erano stati male, ma non avevano comunque la libertà che avevano all’università, coi genitori che controllavano lo studio, i soldi e le uscite, senza contare che ormai non c’era più nessuno che conoscessero bene e perfino il rapporto coi vecchi amici della scuola non era più lo stesso, non sapevano più che raccontarsi quelle due o tre volte all’anno che si rivedevano. Tutti annuivano ed erano felici di potersi godere finalmente la libertà tanto agognata.

I corsi ricominciavano e tutto si faceva con più calma, si ritrovavano le compagnie e si passava molto tempo insieme. Una volta l’amica della giovane poetessa giocò una schedina e vinse cinquecento euro, anche se non aveva mai seguito il calcio in vita sua, allora la poetessa le diceva che era la persona più fortunata che avesse mai incontrato in vita sua e scriveva una poesia prosastica delle sue su come gira la fortuna.

La giovane poetessa ricevette una mail che le comunicava che il giorno dopo la pubblicazione, il libro in cui c’erano anche le sue poesie aveva venduto cento copie. La poetessa fu molto felice, non tanto perché la sua retribuzione era proporzionale al numero di copie vendute, quanto per il fatto che intuiva di poter giungere, con le sue poesie prosastiche, ad un numero di persone a cui non era giunta nessun’altro poeta da molti anni.

In quel periodo un noto poeta andò a tenere un convegno in città, presentava il suo ultimo libro, che non era un libro di poesie ma un romanzo un po’ sullo stile dei vociani, composto di frammenti lirici dal ritmo scandito e ricco di neologismi. La giovane poetessa non aveva letto molto del poeta, ma sapendolo molto stimato nel campo delle lettere, aveva stampato presso una copisteria le sue ultime poesie inedite, che considerava migliori di quelle pubblicate, per ricevere il parere di un luminare del suo tempo, così andò al convegno con la sua migliore amica.

La presentazione fu molto interessante e quando fu finita molte persone si avvicinavano al poeta per farsi autografare le loro copie dei suoi libri, la giovane poetessa si sentì un po’ ipocrita a non possedere neppure un libro del grande poeta, al convegno il proprietario di una libreria della città aveva una sorta di bancarella in cui vendeva quasi tutti i libri del grande autore, ma comperarne uno sul momento soltanto per farsi belli davanti allo scrittore le parve ancora più meschino che non possederne affatto. Si sentiva in soggezione e aveva voglia di andare via, aveva già sperimentato che gli scrittori che si sentono arrivati non danna molta importanza agli emergenti e si degnano raramente di esprimere giudizi e dare consigli. L’amica la rincuorava e le faceva forza ma la giovane poetessa insisteva e voleva rinunciare a tutti costi, l’amica fu costretta a trascinarla davanti al poeta quasi con la forza, tenendola forte per un braccio.

La giovane poetessa consegnava i fogli al poeta, aspettandosi che questi li prendesse e andasse via senza concederle l’opportunità di parlare. Il poeta al contrario si dimostrò molto disponibile e propenso alla conversazione, cominciò a parlare prima di letteratura e poi passò alla città, chiedendo alle ragazze di accompagnarlo a visitarla, visto che non c’era mai stato prima. Il poeta era una compagnia molto gradevole ed il tempo passava in fretta, arrivava l’ora della cena e chiedeva alle ragazze un posto buono dove mangiare, gli avevano concesso il loro tempo ed era dunque giusto che si sdebitasse offrendo almeno la cena.

Quando la cena terminava, il noto poeta salutava con estrema gentilezza le due amiche, si dirigeva verso il bancone per pagare ed ordinare un amaro digestivo, mentre la giovane poetessa ne approfittava per andare in bagno. Apriva la porta e sentiva un forte puzzo di fumo, quando accendeva la luce trasaliva alla vista di uno uomo con un mozzicone di sigaro in bocca, la barba incolta, il capo calvo e gli occhi lucidi e stralunati, sentiva il cuore che le faceva tum-tumtumtum-tututum-tututuuuuuuuum e pensava che potesse scoppiarle come un palloncino proprio lì nel suo petto, sotto i capezzoli che qualche sera prima si era fatta leccare in discoteca da una coglione strafatto di md, non voleva che l’ultimo uomo a leccarle i seni fosse un truzzo illetterato che si faceva di md. Rimase un istante paralizzata dallo sconcerto, l’uomo che la guardava dritta negli occhi col respiro affannoso, si girava di scatto verso il lavandino e cominciava a scrivere qualcosa su pezzo di carta igienica che appoggiava sullo specchio. Le pareva di averlo già visto ma non riusciva a pensare a niente, improvvisamente si sentì correre verso il bagno delle donne e chiudere la porta a chiave, non si rese neppure conto di averlo fatto.

Non sapeva cosa fare, la atterriva il pensiero che se fosse uscita dal bagno quell’uomo avrebbe potuto farle del male, magari l’aveva visto in un telegiornale perché era un serial killer fuggito di prigione, magari era uno stupratore, se fosse uscita di là l’avrebbe stuprata e allora l’ultimo uomo a leccarle i seni sarebbe stato uno stupratore maniaco sessuale, che magari era pure meglio di un truzzo ma era meglio non rischiare di saperlo.

All’improvviso le venne in mente dove aveva visto l’uomo. Si ricordò che l’aveva visto al telegiornale, non in qualità di stupratore ma di poeta. Un periodo era famoso e scriveva poesie da due soldi su un quotidiano nazionale che vendeva molte copie. Poi aveva dato di matto ed era diventato un ingegnere, quando i giornalisti gli avevano chiesto il motivo della sua scelta aveva risposto che l’editore lo costringeva a scrivere cose che non avrebbe voluto scrivere, cose che violentavano la sublime poeticità della poesia (aveva detto proprio così), se doveva fare un lavoro su commissione tanto valeva fare qualcosa di utile.

I genitori della poetessa le dicevano sempre che questi non erano tempi da scriver poesie, che se avesse continuato a scarabocchiare sui quaderni invece di mettersi seriamente a studiare avrebbe fatto la fine di quel poeta, povero povero poeta, gli aveva dato completamente di volta il cervello, se ne stava in un bagno a scrivere al buio sulla carta igienica poesie che l’umanità non avrebbe mai letto. Sentì che le ginocchia le si piegavano e vomitò a lungo nella tazza del cesso.

Finiva di vomitare e riprendeva fiato, usciva dalla porta e salutava gentilmente, credendo che il poeta fosse ancora lì, ma il poeta tutto pazzo era fuggito in un angolo oscuro del mondo, dove nessuno gli chiedeva di violentare la sublime poeticità della poesia.

Quando tornava dal bagno, trovava la sua amica sola al bancone, su cui c’erano due bicchieri d’amaro, uno pieno e l’altro vuoto, chiedeva all’amica cosa fosse successo e lei, estasiata, le mostrava un fogliettino con un numero di telefono segnato sopra. L’amica spiegava con concitazione che il noto poeta in un attimo aveva tirato fuori una penna e aveva scritto il suo numero, aveva bevuto tutto d’un fiato l’amaro e aveva detto alla ragazza di richiamarlo, aveva pagato ed era andato via, mentre lei restava lì senza sapere cosa dire o cosa fare. La giovane poetessa sedette sullo sgabello, sconvolta, davanti al bicchiere vuoto, si sentì fatta di vetro freddo e vuoto, non un vuoto originario, placido e zen, ma un vuoto che prendeva il posto di qualcosa, lungo il quale scorrevano ancora le gocce di quel qualcosa che c’era stato prima, e perciò ancor più doloroso. Ordinò un amaro e disse all’amica che era davvero la persona più fortunata che avesse mai incontrato in vita sua.



Giandomenico

Inettitudine elementale - Acqua

Una tela bianca. Una tela bianca ti frega sempre. Sicuri nel dire ora sì, ora riesco, questa volta!, ma se una tela bianca è bianca davvero ti frega sempre. Sempre. Ogni, maledettissima, volta.

Fra colori sconosciuti l'atto è sommerso: si fa sentire certo, e prova ogni tanto a ribellarsi, ma è più una sensazione autoproducentesi, liquame lipidico che s'accumula, che effettivamente realizzantesi. Che poi boh, giureresti anche di avere accanto a te, dentro di te, tale la presunzione, minata innocenza, il torpore caldo-freddo del moto ondoso del mare. Ti percepisci involucro d'oceano, spazio gravido d'infinito in finito essere.

Ma è un eco disperato, agitato, di odori prima-umani che dal basso verso l'alto stridono sull'odorosi sensi: narici, palato, lingua, gola, polmoni, viscere; da sentore si fa odore. Carcasse putride d'involuti maestri, abbracciati da catene disgustose di ossa carne sangue e tendini.

Azzerate le distanze, bidimensionale veduta - sconcerti lamenti di ferite insane.

Gioco di chiare ombre, malcelati attimi, si fa fluire: "credi allo scorrere dell'acqua", un giorno mi dissero, non solo a me, a quanti?, chissà, nessuna importanza, v'ho creduto.

Acuito me stesso, portatore di marine, m'apro al mondo più vero. Vivo nell'aria, nel cielo, nel richiamo del vento - e mantengo il segreto.

"Credi allo scorrere dell'acqua"

Infedele cenere.





Andrea Bollini/fomento