Ecco il verso mio, forte egli s'eleva,
mio il tono saldo ora non arretra.
Tremule falene frali fra le mani:
Io v'inchiodo l'ali! Più non v'è domani!
Alba sulla croce scolpita dal pennino
Sorgere vedrete al sole del mattino,
rivoli rubestri di gorgogliante sangue
e l'umano genere che perenne langue.
Avanti musicisti tronfi delle note,
Queste melodie sono tutte vuote!
Primi siete sempre unici creatori,
biechi intingente lesti i vostri allori
come fece nell'avanzo Giuda l'Iscariota,
simili voi non valete mezza jota!
Son le corde flosce ed il vostro raglio
che ai pecoroni è solamente abbaglio.
Tardi philosophes dell'aperitivo
questo il modo mio d'essere assertivo:
Le lingue ve le inchiodo sin agli alti rostri,
siete buoni a nulla e non avete occhi
per scorgere intera questa nullità
e delle teorie la piena vacuità.
Non cercate pace, guerra voi non fate:
se vi masturbate felici vi saziate.
Ecco i letterati, galoppini dell'inchiostro
ramarri balbuzienti e senza giusto posto.
In spalla voi salite d'un magnifico gigante
e nobili vi dite ladri nonostante.
Tutto conoscete tranne quello che sentite:
canto e melodia non li concepite
che d'avanguardia soffrite dell'artrite
La penna mia è cura: forza, sì, morite!
Notabili schifosi, d'incedere asinino,
sulla legge fate osceno un bel bottino!
Lunga è la sequela e salda per famiglia
la vostra fedeltà è solo alla bottiglia,
all'orata piluccata di fianco alla puttana.
Basta sol che marchi il ceto la sua tana!
Vi giuro, qui lo dico, il cuor vi sbranerò
e col sangue lento sentenza scriverò.
Né tempo né più spazio per esser di parte
col fine ultimo di starsene in disparte:
imago fatti sotto, più non mi consoli.
Solo m'hai ceduto tutti i tuoi rancori.
la pelle e gli occhi godendo te li strappo.
bene lo so io che non vali un cazzo.
Scrivi da trentanni e su di me straparli
il cervello mio l'han rosicato i tarli.
Sorge il mio tramonto, giaccio per il letto
sempre a te vicino son così costretto.
Non c'è assoluzione per il mio peccato
per aver compreso d'essere mai nato.
Se spero proiettato oltre il mio balcone
non la sento più l'invisibile ascensione.
Quando notte giunge ancora giaccio vivo
e prego sul mio corpo di sudore intriso.
Né sosta, nessun posto per chi non ha pietà
dello specchio franto pian piano nell'età.
Cerco nonostante le schegge siano tante
la parvenza vera del kairos l'istante
che sussurri il nome che mai conoscerò
perché la luce è bella e mai la tratterrò.
La luce non s'ingabbia neppure la si implora
se la bruna piaga il viso trascolora.
Luce buona e cara, il canto mi consola.
Subito ora taccio: la conficco in gola
stonata questa penna fredda fra le dita
ogniqualvolta per gli occhi suoi ho vita.
Domani certamente allo specchio noterò
un naso da guascone dunque crollerò:
leggerà la rima e presto riderà
lei poi ritratta paura proverà.
Tuonerà la luce via come il lampo
rimarrò io solo, scuro buio infranto.
Ma i temuti fati fesso non mi fanno:
del tempo scivoloso ne semino lo spazio
perché di gioia densa sono tutto sazio.
Paure velenose presa più non hanno.
E' marchio il nome mio all'angelo soldato,
con me il fiero leone ha sempre vegliato,
Terribile trafiggo con punta di scorpione:
Dentro non c'è buio o terribile dolore.
Queste le armi mie, son le più fidate
Guardate questi occhi e l'animo pesate!
Son guerriero nato: fuggite paurosi!
Tentar di sovrastarmi oggi non si osi:
se con la mia rima ti becco in mezzo al petto
vigliacco, ben lo sai, all'inferno vai diretto.
Distruggo alte fortezze e scalo le montagne
quelle ripidissime , temute fra le tante.
La via pericolosa, la palude dello sdegno
io di tutte e due mi faccio buffo scherno
E se tre volte a terra esanime cadrò
quattro volta e una ridendo m'alzerò
Perché da meritarsi è il calore della luce
A lei il gran valore soltanto mi conduce.
Michele Biondini
giovedì 28 agosto 2014
Ecco il verso mio, forte egli s'eleva
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Nelle onde del mare
Erano i banchi delle elementari quelli verdi?, no, erano quelli
delle medie, forse erano bianchi, quelli delle medie, una cosa era
certa, quelli verdi erano tutti imbrattati di sbianchino, di disegni, di
scritte, che cosa c’era scritto?, che cosa c’era disegnato?, lo strato
plastificato, quello verde appunto, era tutto squassato e disastrato,
dal di sotto emergeva il legno ruvido con cui il banco era fatto, un
legno vecchio, solcato da righe incise con le punte delle penne, forse
di chiavi, o di coltellini, al limite, quelli bianchi invece erano
tenuti meglio, erano quelli bianchi i banchi delle medie, quelli verdi
erano delle elementari. Quando ripensava a certe cose, Giulia era
sconvolta da quanto poco ricordasse il suo passato, a parte qualche
scena, forse una ventina, una venticinquina di scene ricorrenti, come
scene di una commedia, di una tragedia, di un’opera buffa, bene impresse
nella memoria, che nella sua mente coincidevano con dei momenti di
cesura, momenti di transizione, momenti significativi che avevano
segnato il passaggio da un prima a un dopo, ma in che cosa consistesse
il prima, in che cosa consistesse il dopo, se glielo avessero chiesto,
Giulia non avrebbe saputo dirlo. E senza contare che molti di quei
momenti non li ricordava neppure direttamente, li aveva visti in qualche
vecchio filmato trasposto su dvd, li aveva riportati alla memoria
sfogliando i vecchi diari, scolastici e personali, li aveva desunti da
aneddoti raccontati dai genitori o dagli amici. Che fine aveva fatto la
sua vita? Forse era annegata nelle onde del mare di quella notte. Di
notte non c’erano bagnini a guardia del lido, chissà se il mare se ne
sentiva sollevato, se di giorno si agitava soltanto per fare un dispetto
ai bagnanti, ai turisti che pagavano per una sdraio, per un pezzo di
plastica, o se a volte stava calmo soltanto per compiacerli, se pure a
quell’immensa distesa d’acqua ogni tanto veniva l’ansia di piacere e si
sforzava d’essere apprezzata, allora quelle volte, quando voleva che
tutti i turisti pensassero “che bel mare un bellissimo mare piatto fatto
a posta per farci il bagno”, quelle volte si sfogava la notte, se la
sabbia gli fosse stata legata da una relazione di coniugio sarebbe stata
una moglie fedele e paziente, disposta a subire le angherie del marito
frustrato o avrebbe sporto denuncia a qualche soprannaturale autorità
competente? Giulia sorrise. La spiaggia era completamente deserta. Se
avesse voluto avrebbe potuto spogliarsi. E trovarsi davanti quei suoi
seni piccoli, fino a un paio di anni prima avrebbe voluto rifarseli,
essere come le altre ragazze che potevano essere sicure di se stesse,
sicure di piacere, sicure che gli sguardi che attiravano non erano
sguardi di derisione, ma sguardi di apprezzamento, no grazie, meglio
tenersi i vestiti, tenersi coperte quelle due punture di zanzara che si
era ritrovate sul torace, e non pensarci più, sempre meglio che farsi
impiantare sottopelle due cuscinetti di silicone, toccarsi e sentirsele
come due intrusi sotto la pelle, a volte stentava già a sentirsi sue
quelle stecche sghembe che si ritrovava attaccate ai piedi, una più
lunga, una più corta, senza criterio, possibile che fossero sue davvero,
che non fossero spuntate per sbaglio, che non le fossero state
impiantate di notte, mentre dormiva, da un sadico burattinaio? Erano
forse pensieri superficiali quelli? Forse per un ragazzo. Solo un
ragazzo li avrebbe etichettati come superficiali, ma per un ragazzo era
diverso, un ragazzo non avrebbe potuto capire, i ragazzi non capivano
mai niente, mai, niente, magari era lei ad essere pazza, a volte le
veniva il dubbio che fosse lei davvero pazza, c’erano dei momenti in cui
le sembrava di ribollire dall’interno, forse le crisi epilettiche non
sono che l’equivalente dei terremoti, quando si ribolle troppo, forse
quelle due punture di zanzara in realtà sono dei fori d’emergenza
traverso cui l’anima si riserva di scappare nei casi disperati, quando
il corpo non può più contenerla, quando si dilata troppo, a seguito dei
su e giù troppo frequenti, troppo spropsitati, del mercurio del
termometro umorale, e l’ombelico è l’occhio del ciclone, l’epicentro, il
fulcro del vortice in cui veniva risucchiata quando non riusciva più a
stare in contatto col fuori, con quella nazione straniera,
quell’ordinamento nemico che vigeva al di là del confine della pelle. Il
vento soffiò più forte e gli ombrelloni chiusi rabbrividirono. Le
vennero dei grossi punti bianchi sulla pelle. Era quasi ora di tornare
in albergo, anche Giulia faceva parte di quei cretini che pagano per un
pezzo di plastica. Non lo aveva fatto di sua spontanea volontà, si era
soltanto accodata alle amiche. Si era adeguata a quello che si fa di
solito. E' così che si fa di solito, ci si adegua. Quella sera non le
andava di sorbirsi le altre due oche con cui condivideva la camera, di
sentirsi i racconti delle loro esperienze coi ragazzi, e le esperienze
universitarie, e le esperienze lavorative, e la volta che a lezione il
compagno non smetteva di fissarle, e la volta che la compagna aveva loro
soffiato il ragazzo “come una puttana”, e il professore che anche se
hai studiato tutto il programma “ottocento pagine di libro” riesce a
farti la domanda proprio su quel paragrafo che non ti ricordi bene
“giusto per bocciarti lo stronzo”, e il cliente che ci prova ma prima
che tu finisca il turno “quel bastardo già si trova un’altra”. Non le
reggeva più tutte quelle cazzate. Avrebbe voluto avere il potere di far
sparire il mondo con una formula magica, vivere di sé stessa, o quanto
meno sospendere, a tempo indeterminato l’esistenza del mondo,
soppiantare il mondo con la propria interiorità, almeno fino a che il
mondo non avesse imparato ad esistere in modo più decente, più
rispettoso. Il cellulare cominciò a vibrare, evidentemente il mondo era
ancora là, invadente, indecente, come sempre era stato, Giulia guardava
lo schermo, lo lasciava squillare, la suoneria emergeva flebile dal
rombare delle onde, forse il mondo si faceva inconsistene, avrebbe
voluto soffocarlo. Scagliò il telfono lontano, non lo sentiva più.
Sentiva solo il vento, il rumore delle onde, il rabbrividire degli
ombrelloni nella luce opaca di quelle stelle fredde. Seduta sulla
sabbia, strinse l’estremità di uno dei lacci della scarpa sinistra tra
l’indice e il pollice della mano destra, tirò fino a slacciarla, si
tolse la scarpa, ripeté il processo con l’altra scarpa, per simmetria
adoperò indice e pollice dell’altra mano, via i calzini, sentiva la
consistenza granulosa della spiaggia sotto le piante dei piedi. Si
incamminò verso il mare, magari ci trovava qualcosa davvero, a galla o
sul fondo, sentì l’acqua arrivarle alle caviglie, le onde che le
sbattevano sulle cosce, i jeans che si facevano pesanti, si
appiccicavano alla pelle, la pelle, impregnarsi di salsedine, quello lo
immaginava, l’aveva sentito dire così tante volte, non lo sentiva
distintamente, forse si sarebbe imbattuta in cadaveri, in meduse, in
tesori, in branchi di pesci, in buste di plastica, in qualche relitto,
il relitto della sua vita che non trovava nella sua memoria, per quanto a
fondo vi frugasse, anche il portafogli, le si era tutto inzuppato, con
tanto di soldi, di carta di credito, di tessera sanitaria, di patente,
ma si, che tutto andasse giù, toccasse il fondo, assieme a lei, che
tutto affogasse.
Giandomenico Cicchetti
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Veglia estiva
È questa l'ora in cui l'anima s'affaccia
addolcita per l'uso di stare taciuta
placida e tesa come gocciola in caduta
molto la medito nel luminoso allungarsi
nel minuscolo tonfo che un tempo pareva
di memorandi declini, di lampi
stupiti, ma non sei che questo invece,
gentile racchiusa, un atteso raccogliersi
nell'ora in cui la notte e la veglia ti punge
un previsto ritorno in cui anche il ricordo
di chissà quali trascorsi urti
ti riscuote, mite ne è il vecchio stupore,
l'aria è un umore che lene col fresco
mediti in pace l'orizzonte ristretto
l'alone di luna e i contorni del mondo
sbuffi e abbrividisci col cielo che schiara
il bosco che si staglia ti è trista veduta
il sussurro dell'alba ti è fosco pensare
-amabile compagna eri all'ombra e al silenzio
ti congedi al chiarore emanando segreti
li fingo benevoli nel lieve spavento del tuo ritirarti.
Mattia Pacetti
addolcita per l'uso di stare taciuta
placida e tesa come gocciola in caduta
molto la medito nel luminoso allungarsi
nel minuscolo tonfo che un tempo pareva
di memorandi declini, di lampi
stupiti, ma non sei che questo invece,
gentile racchiusa, un atteso raccogliersi
nell'ora in cui la notte e la veglia ti punge
un previsto ritorno in cui anche il ricordo
di chissà quali trascorsi urti
ti riscuote, mite ne è il vecchio stupore,
l'aria è un umore che lene col fresco
mediti in pace l'orizzonte ristretto
l'alone di luna e i contorni del mondo
sbuffi e abbrividisci col cielo che schiara
il bosco che si staglia ti è trista veduta
il sussurro dell'alba ti è fosco pensare
-amabile compagna eri all'ombra e al silenzio
ti congedi al chiarore emanando segreti
li fingo benevoli nel lieve spavento del tuo ritirarti.
Mattia Pacetti
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